cosa si intende per visual?

Tuesday, March 29, 2022

A new approach

“In quanto rappresentazione, una mappa significa […] e allo stesso tempo mostra che significa”, scriveva Louis Marin, teorico dell’arte e semiologo, a proposito della mappa come ritratto della città. Come un ritratto racconta tanto della persona che è immortalata quanto della mano che ha contribuito a tracciarlo (e così dello stile dell’autore e del suo punto di vista sulla scena), così ogni immagine porta su di sé, per chi la sa guardare, l’impronta di chi l’ha prodotta.E questo indipendentemente dal fatto che l’immagine si trovi in un museo, nel lembo strappato di un manifesto pubblicitario o sullo scaffale di un supermarket. O, ancora, sulla copertina di un libro.

Non esiste una cosa o una disciplina che si chiami visual design”, sottolinea Falcinelli. “È un termine di comodo, un grande lemma che ho scelto per ragionare su alcuni problemi visuali nel mondo contemporaneo: pratiche e saperi diversi che condividono meccanismi simili di uso e di significazione. Per questo per parlarne sentivo il bisogno di uscire da un compartimento specialistico (la grafica) per trattare della progettazione più in generale come fatto sociale. Sia dal punto di vista dei produttori, sia dei consumatori. Quello che accomuna lo scontrino della farmacia e una pagina di romanzo è il sistema con cui vengono diffusi alcuni valori culturali attraverso abitudini formali”.

Gli oggetti grafici sono sempre anche delle merci. Se prendi qualunque libro sulla storia della grafica, trovi le copertine di Munari e Einaudi, ma ti chiedi: “Dove stanno i succhi di frutta?”. Tutta la grafica reale che abbiamo intorno dalla mattina alla sera nelle storie della grafica non c’è. Quindi il mio libro, per parlare di comunicazione visiva oggi, e non della storia della grafica, doveva parlare delle merci. Per questo per la copertina ho scelto il tetrapak con il titolo scritto sopra, come a significare che il libro stesso è una cosa che si compra. La copertina in due parole vuole dire: l’involucro, il display del libro, è un tipo di tetrapak, quindi stai guardando una meta-merce.

Come scegli il trattamento del testo e della composizione? Rispetto ai contenuti o rispetto al pubblico a cui è rivolto?
Entrambe le cose. Oggi viviamo in un mondo in cui siamo sommersi di merci, di discorsi e di immagini. La cosa fondamentale per far parlare questi progetti è individuare il tono giusto. Che cosa è il tono? È quella cosa che trovi alla Feltrinelli o all’autogrill e, a colpo d’occhio, senza concettualizzare, capisci che è un thriller. L’esempio che ho fatto è semplice ma può essere più sofisticato. Ovvero posso individuare il tono che distingue un classico della filosofia da un pamphlet contemporaneo. Devo creare un dialogo tra quello che si chiama immaginario collettivo, cioè quel deposito di immagini e pensieri che la gente ha in testa, e ciò che ti vuole dire il libro. Quindi la domanda di fondo è: chi c’è dall’altra parte? Poi c’è anche un gusto nazionale. Se ad esempio realizzo un romanzo in Italia o negli USA cambia completamente il tono anche della tipografia.

Quindi ci confrontiamo con delle immagini al pari di vetrine.

Tutto ciò oggi appartiene al mondo del display e per me corrisponde letteralmente al “mettere in mostra”. Noi mostriamo delle cose. Nella società digitale tutto è una vetrina, come le nostre pagine Facebook. Questa estate ho letto Il Paradiso delle Signore di Zola, che parla di quando nell’Ottocento esplodono i grandi magazzini come le Galerie Lafayette, mettendo in luce questa ossessione per le vetrine che prima non esisteva. Prima c’era il negoziante che ti mostrava la merce. È significativo perché negli stessi anni nascono i musei e le riviste illustrate. Oggi dobbiamo sapere cosa mettere in vetrina. Anche quando facciamo cultura elitaria, più di settore o accademica, se non siamo in grado di raccontare quello che stiamo facendo, quella cosa muore. Perché abbiamo bisogno di vetrine? Perché siamo troppi, credo sia questa la differenza con il passato. Finché si viveva in paeselli di ottocento persone non c’era questa necessità di mettere in mostra. Ci si conosceva tutti e si sapeva più o meno di tutti cosa c’era o non c’era da dire, penso anche alla Firenze rinascimentale. Oggi siamo miliardi di persone e, se non si ha una vetrina, come fanno le persone a orientarsi e sapere cosa stai facendo?

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